VII

L’ESPERIENZA PESSIMISTICA DEL SOGGIORNO ROMANO

Ma lo stesso Zibaldone subisce un rallentamento durante la seconda metà del ’22 per giungere a una quasi completa stasi durante il periodo del soggiorno romano.

Né a caso nelle poche pagine dello Zibaldone stese nel periodo del soggiorno a Roma (fra il novembre del ’22 e il maggio del ’23) e dedicate prevalentemente ad appunti linguistici e a rari significativi pensieri contro la società e contro la vita nelle grandi città, il Leopardi raccolse una breve e dolente epitome di sentenze pessimistiche, tratte proprio da quegli antichi che pur aveva esaltato nella loro vicinanza alla natura e alle illusioni e di cui sempre continuò a sentire l’attrazione di attività e di eroismo, ma di cui adesso sottolineava piuttosto la coscienza della vanità e dell’infelicità della vita, utilizzando a tale scopo le citazioni cosí frequenti nel Voyage du jeune Anacharsis del Barthélemy (che già aveva offerto materiale di meditazione pessimistica al Foscolo dell’Ortis e del Sesto tomo dell’Io) o il volgarizzamento, da parte dell’Adriani, degli Opuscoli morali di Plutarco: specie nei confronti della sventura del nascere, della fortuna del morire, o della felicità consistente solo nel «sentir meno il duolo» («sentenza che racchiude la somma di tutta la filosofia morale e antropologica»[1]). Pessimismo portato entro il mondo antico e repulsione per il «mondo» attuale si associano nella nuova esperienza del soggiorno romano che fu sofferta come delusione a tutti i livelli, in contrasto con il suo disperato bisogno di vita, di affetti, di socievolezza vera e civile cosí fortemente espresso in certe lettere al fratello Carlo («ho bisogno di amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita»[2]) o configurato nel piacere delle rare conversazioni «alla francese»[3] offertegli non dall’ambiente romano, ma da quegli stranieri colti o addirittura uomini di grande cultura e geniali filologi e storici come il Bunsen e il Niebuhr, dai quali il Leopardi ebbe altissimi riconoscimenti. Sicché – si ricordi bene – lo stesso pessimismo e il disdegno quasi misantropico che l’esperienza romana accentuava (insieme all’impressione dolorosa di un incontro troppo tardivo con il «mondo»[4] quando la solitudine recanatese avrebbe come anchilosato la sua ben diversa natura e accresciuto il «vizio» dell’absence e della «solitudine») non mancano di un contrastante rilievo nella disperata disposizione e ricerca di contatti umani, di partecipazione ad una vera società colta e civile, di impegno nella vita associata, di tensione alla grandezza «vera» e di simpatia profonda per strati di popolazione laboriosa, attiva e schietta, la cui vita era fondata sul «vero» e non sul «falso». Che sono le grandi e significative parole che affiorano nel vero e unico capolavoro del periodo romano, la lettera del 15 febbraio 1823 al fratello Carlo[5] stagliata in mezzo alle espressioni epistolari di un giudizio severissimo[6] nei confronti della vita bigotta, ipocrita e retriva di Roma, della sua frivola e vana cultura-incultura[7], delle sue consuetudini risibili specie in rapporto con la vita ecclesiastica, con la Curia corrotta e reazionaria, con lo stesso cinismo pettegolo di collaboratori di quella, pronti a rivelarne i vizi e le assurdità fino a quelle vere e proprie «barzellette del regime» che il Leopardi riferisce insieme deridendole ed esponendole[8] con quella lucidità illuministica che ritornerà poi a rivelarsi nella lettera pisana al Vieusseux sui miracoli della Badessa taumaturga[9].

Nella grande lettera del 20 febbraio 1823 il romantico «piacere delle lagrime» («primo e unico piacere provato in Roma»[10]) si fonda sul potente sentimento di contrasto fra la miseria della tomba del Tasso e la grandezza dell’uomo ivi sepolto e fra quella sproporzione esaltante e il vano fasto retorico di mausolei romani (dove sono le «mura e gli archi» della canzone All’Italia?) e si collega, nell’ultima bellissima parte della lettera, con la sobria poesia della strada che conduce a S. Onofrio fra case-opifici da cui giungono rumori di telai e voci e canto di lavoratori cosí rari e diversi nella popolazione parassitaria e oziosa della Roma papale: voce di una vita fondata «sul vero e non sul falso» e cosí ben adatta a preparare «lo spirito alle impressioni del sentimento» suscitate dalla tomba del Tasso.

In un intreccio densissimo si rivelano in quella lettera tante componenti dell’animo leopardiano (a cominciare dal suo istinto democratico prepolitico e di fondo) e quasi si prefigura uno degli aspetti dell’iter poetico leopardiano: il vero e la poesia, il vero e il vago, la persuasione come base necessaria del sentimento se questo non è effusione evasiva, retorica, ingannevole e ingannatrice: «Venerdí 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma. La strada per andarvi è lunga, e non si va a quel luogo se non per vedere questo sepolcro; ma non si potrebbe anche venire dall’America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti? È pur certissimo che le immense spese che qui vedo fare non per altro che per proccurarsi uno o un altro piacere, sono tutte quante gettate all’aria, perché in luogo del piacere non s’ottiene altro che noia. Molti provano un sentimento d’indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d’una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla degli affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura. Ma tu non puoi avere idea d’un altro contrasto, cioè di quello che prova un occhio avvezzo all’infinita magnificenza e vastità de’ monumenti romani, paragonandoli alla piccolezza e nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e fremebonda consolazione pensando che questa povertà è pur sufficiente ad interessare e animar la posterità, laddove i superbissimi mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta indifferenza per la persona a cui furono innalzati, della quale o non si domanda neppur il nome, o si domanda non come nome della persona ma del monumento. Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle giacere prope magnos Torquati cineres, come dice l’iscrizione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena soffrii di guardare il suo monumento, temendo di soffocare le sensazioni che avevo provate alla tomba del Tasso. Anche la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. È tutta costeggiata da case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de’ telai e d’altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l’immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s’incontra per quella via, hanno un non so che di piú semplice e di piú umano che quelle degli altri e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d’intrigo, d’impostura e d’inganno, come la massima parte di questa popolazione. Lo spazio mi manca: t’abbraccio. Addio addio».

Ma, ripeto, l’esperienza romana nel suo peso maggiore fu un aggravamento della delusione leopardiana (con i suoi anelli da storici e sociali ed esistenziali), una riprova della mediocrità e della meschinità della media società umana, una personale convalida del piú forte bisogno di scavo intellettuale nella situazione umana e di un isolamento non compiaciuto, ma estremizzato nella risposta al «secol tetro» e alla illusione delle illusioni, a la «donna che non si trova», ad un’immagine scorporata e astrale del suo stesso disperato bisogno di illusioni e di. amore collocato cosí in alto da sfuggire la contaminazione della triste realtà.

Fallito ogni penoso tentativo di trovare impiego[11] (Leopardi non trovò nel suo tempo né impieghi né premi!) che comunque lo salvasse dal carcere recanatese, Leopardi aveva dovuto rientrarvi e si era immerso con nuova foga nel lavoro dello Zibaldone che sarebbe totale in quella seconda metà dell’anno 1823 se da esso non si levasse il sorprendente capolavoro del canto Alla sua donna: sorprendente e quasi incomprensibile per i contemporanei e viceversa ben comprensibile, almeno nella sua genesi, per chi lo leghi alla situazione biografico-interiore, al ricavo delusivo-tensivo del soggiorno romano, alla stessa problematica tormentosa dello Zibaldone in questa sua fase incalzante ed estremamente critica. Quel canto altissimo e singolarmente liturgico (sempre di una liturgia atea e platonica-antiplatonica) raccoglie infatti tutte le delusioni leopardiane e ad esse surroga – con uno sforzo di tensione supremo che fa pensare al «calor bianco dell’incandescenza»[12] – con una illusione suprema salvata in quel crollo pauroso perché creata solo dal piú interno pensiero («se vera e quale il mio pensier ti pinge»: luce, non colore) e collocata in una gamma di ipotesi mentali proprio per liberarla da ogni controllo della realtà, sicché il poeta non solo non chiede risposta al suo inno di «ignoto amante», ma s’appaga solo dell’immagine nuda di quella donna astrale considerando impossibile ogni possesso della sua verità e traduce tale situazione eccezionalmente ardua in un’altissima soluzione costruttiva e stilistica in cui l’ardire concettoso e immaginoso-energetico delle canzoni del ’21-22, pur nella sua soluzione piú temperata e intima dell’Ultimo canto di Saffo, è superato nettamente in una prospettiva di inventività originalissima che priva la luce purissima di ogni scoria pittoresca, scorpora la parola rendendola trasparente e pur intensa, ramifica la costruzione (piú salda in realtà della desanctisiana «fantasia errabonda», pur nella sua delineata prospettiva di ipotesi tutte accordate al senso fondamentale di una sperimentazione conclusa nello slancio finale di una suprema illusione da salvare dalla contaminazione e delusione della realtà) in una forma di assoluta necessità, e fonde esaltazione, assurdità, imparagonabilità, suoni rapiti e scuri («di qua dove son gli anni infausti e brevi») in una lirica misurata e travolgente per il suo impulso senza peso e senza volume:

Se dell’eterne idee

l’una sei tu, cui di sensibil forma

sdegni l’eterno senno esser vestita,

e fra caduche spoglie

provar gli affanni di funerea vita;

o s’altra terra ne’ superni giri

fra’ mondi innumerabili t’accoglie,

e piú vaga del Sol prossima stella

t’irraggia, e piú benigno etere spiri;

di qua dove son gli anni infausti e brevi,

questo d’ignoto amante inno ricevi.

Qualcosa di supremo e piú intangibile del pensiero e del piacere dell’infinito, in questa zona di delusioni totali e di rifiuto di ogni sensibile compenso, proprio mentre nello Zibaldone si denuncia l’impossibilità moderna di ogni poesia sensuosa[13], si esalta il sublime potere astrattivo della mente e d’altra parte si rifiuta ogni possibilità di assoluto, di idee innate, di non condizionamento materiale e sensistico di ogni processo umano, di imperfezione della natura da cui – si badi bene – non scatta la conclusione religiosa che altri tipi di personalità e di mentalità storica potevano ritrarne (il mondo è imperfetto, dunque si deve postulare un’altra realtà perfetta), ma anzi deriva la conclusione leopardiana che tutto è male e che il desiderio di una doppia realtà non sarebbe altro che la riprova della miseria infinita dell’uomo e dei deliri della sua mente stravolta: laddove invece poeticamente ne poteva ricavare l’inno ateo alla «sua» donna, figlia della «sua» mente e dunque ancora creazione e finzione umana usufruita solo a un risveglio di «palpito» tutto umano e terreno.


1 Zibaldone, 10 febbraio 1823 (Tutte le op. cit., II, p. 679).

2 Lettera del 25 novembre 1822 (Tutte le op. cit. I, p. 1129).

3 Si veda la lettera a Paolina del 30 dicembre 1822 (Tutte le op. cit., I, p. 1138).

4 Cfr la lettera al Giordani del 4 agosto 1823. Piú tardi nel 1827 (cfr. Zibaldone in Tutte le op. cit., II. pp. 1135-1136) giungerà a riconoscere come proprio errore l’amore della solitudine sviluppatosi in lui al contatto con un mondo angusto e vile.

5 Rimando, per un esame minuto di quella lettera, al mio scritto sull’argomento ripubblicato nel presente volume.

6 Dirà il De Sanctis: «Il torto non era di Roma, ma era tutto suo». Certo il Leopardi portava nei confronti della realtà un’attesa troppo grande per non essere delusa (già cosí avveniva all’Alfieri), ma il giudizio sulla realtà romana (specie se si considera la prospettiva leopardiana intransigente ed esigente) non era certo privo di una sua, anche se esagerata validità. La Roma di quel tempo era comunque piú oggetto di sogni e trasfigurazioni di grandi personalità straniere che non soggetto di storia e di cultura. Né il Leopardi era disposto alla bellezza scenografica di Roma o al «bello ideale» di un Apollo del Belvedere o di una Venere capitolina al cui piacere dichiarava di preferire quello di «parlare a una bella ragazza» (lettera a Carlo del 5 aprile 1823, in Tutte le op. cit., I, p. 1158).

7 Si veda la lettera al padre del 9 dicembre 1822 (Tutte le op. cit., I, pp. 1133-1134): «Quanto ai letterati, de’ quali Ella mi domanda, io n’ho veramente conosciuto pochi, e questi pochi m’hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d’arrivare all’immortalità in carrozza, come i cattivi Cristiani al Paradiso. Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato Romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l’Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e pare un giuoco da fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di sasso appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa. La bella è che non si trova un Romano il quale veramente possieda il latino o il greco; senza la perfetta cognizione delle quali lingue, Ella ben vede che cosa mai possa essere lo studio dell’antichità. Tutto il giorno ciarlano e disputano, e si motteggiano ne’ giornali, e fanno cabale e partiti, e cosí vive e fa progressi la letteratura romana». E si veda ancora nella lettera del 16 dicembre a Carlo (Tutte le op. cit., I, p. 1135-1136): «I piú santi nomi profanati, le piú insigni sciocchezze levate al cielo, i migliori spiriti di questo secolo calpestati come inferiori al minimo letterato di Roma, la filosofia disprezzata come studio da fanciulli, il genio e l’immaginazione e il sentimento, nomi (non dico cose ma nomi) incogniti e forestieri ai poeti e alle poetesse di professione; l’Antiquaria messa da tutti in cima del sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l’unico vero studio dell’uomo. Non vi dico esagerazioni. Anzi è impossibile che vi dica abbastanza. Letterato e Antiquario in Roma è perfettamente tutt’uno. S’io non sono Antiquario, s’intende ch’io non sono letterato e che non so nulla. E poi quel veder la gente fanatica della letteratura anche piú di quello ch’io fossi in alcun tempo; quel misero traffico di gloria (giacché qui non si parla di danari, che almeno meriterebbero d’esser cercati con impegno) e di gloria invidiata, combattuta, levata come di bocca dall’uno all’altro; quei continui partiti, de’ quali stando lontano non è possibile farsi un’idea; quell’eterno discorrere di letteratura (come p. es. Massucci de’ suoi negozi), e discorrerne sciocchissimamente, e come di un vero mestiere, progettando tutto giorno, criticando, promettendo, lodandosi da se stesso, magnificando persone e scritti che fanno misericordia; tutto questo m’avvilisce in modo, che s’io non avessi il rifugio della posteriorità, e la certezza che col tempo tutto prende il suo giusto luogo (rifugio illusorio, ma unico e necessarissimo al vero letterato), manderei la letteratura al diavolo mille volte».

8 Si legga nella lettera a Carlo del 18 dicembre 1822 (cit.), questo resoconto delle ciarle del Cancellieri: «Cancellieri mi diverte qualche volta con alcuni racconti spirituali, verbigrazia che il Card. Malvasia b. m. metteva le mani in petto alle Dame della sua conversazione, ed era un débauché di prima sfera, e mandava all’inquisizione i mariti e i figli di quelle che le resistevano ec. ec. Cose simili del Card. Brancadoro, simili di tutti i Cardinali (che sono le piú schifose persone della terra), simili di tutti i Prelati, nessuno de’ quali fa fortuna se non per mezzo delle donne. Il santo Papa Pio VII deve il Cardinalato e il Papato a una civetta di Roma. Dopo essere andato in estasi, si diverte presentemente a discorrere degli amori e lascivie de’ suoi Cardinali e de’ suoi Prelati, e ci ride, e dice loro de’ bons-mots e delle galanterie in questo proposito. La sua conversazione favorita è composta di alcuni secolari, buffoni di professione, de’ quali ho saputo i nomi, ma non me ne ricordo. Una figlia di non so quale artista, già favorita di Lebzeltern, ottenne per mezzo di costui, e gode presentemente una pensione di settecento scudi l’anno, tanto che, morto il suo primo marito, si è rimaritata a un Principe. La Magatti, quella famosa puttana di Calcagnini, esiliata a Firenze, ha 700 scudi di pensione dal governo, ottenuti per mezzo del principe Reale di Baviera, stato suo amico. Questo è quel principe ch’ebbe quel miracolo di guarire improvvisamente (come si lesse nelle gazzette) dalla sordità, restando piú sordo di prima».

9 Lettera del 3 dicembre 1827 (Tutte le op. cit., I, p. 1300): «Già saprete della Badessa taumaturga, che moltiplicava prodigiosamente l’olio di una lampada, con rifondervene di nascosto ogni notte: saprete delle lusinghe, delle minacce, degl’inganni, dei mali trattamenti che si usavano alle giovani educande per indurle a far voto di verginità prima che conoscessero il significato della parola, e poi a farsi monache in quel monastero: saprete delle apparizioni che si adoperavano a questo effetto; apparizioni di angeli, e apparizioni di demonii; i demonii erano certi topi grossi, ai quali mettevano certi ferraiuolini neri, e un paio di corna (la coda l’aveano del loro), e cosí vestiti li facevano andare attorno, la notte, pel dormitorio».

10 Proprio sul «dono delle lagrime» «sospeso», ma non «perduto» è impostato il giudizio entusiastico sulla musica di Rossini nella Donna del Lago: «la qual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei pianger ancor io [come diceva di aver fatto Carlo in simile occasione a Recanati], se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso, giacché m’avvedo pure di non averlo perduto affatto» (lettera a Carlo del 5 febbraio, in Tutte le op. cit., I, p. 1148).

11 L’affannosa ricerca di un impiego che lo liberasse comunque da Recanati e dalla soggezione al padre sarebbe stata forse realizzata se il Leopardi avesse accettato di entrare nella carriera prelatizia, ciò che, pur fra dubbi umanissimi e spiegazioni reticenti, è chiarito nella lettera a Carlo del 22 marzo 1823 (Tutte le op. cit., I, pp. 1155-1157).

12 Si ricordi che gli accenni piú pittoreschi (anche se estremamente rastremati e stilizzati) delle stanze prima e quarta furono, molto probabilmente, aggiunti successivamente al primo abbozzo della canzone, pur se a distanza di pochi giorni (cfr. Discorso Proemiale di F. Moroncini a G. Leopardi, Canti, Bologna 1927, vol. I, pp. xxxv-xxxvI).

13 Su questo motivo dello Zibaldone (l’impossibilità addirittura della poesia nel mondo moderno) e sulla risposta della sperimentazione (ma, si ricordi, profondamente ispirata, interiormente necessitata nell’intera esperienza dell’autore) che il Leopardi fa di una poesia cosí rarefatta e pur intimamente ardente si veda ora il saggio di G. Savarese, La canzone leopardiana «Alla sua donna» tra consapevolezza e illusione, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1, 1970.